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Categoria: Diritto del lavoro

Articoli di diritto del lavoro


Differenze tra trasferta e trasferimento del lavoratore

DOMANDA: A causa del Covid, nell’ultimo mese e mezzo ho lavorato presso una sede diversa da quella mia abituale, che era rimasta chiusa per carenza di clienti, e l’azienda mi pagava le indennità di trasferta. Ora mi vogliono definitivamente trasferire nella nuova sede. A me può anche andare bene, ma ho bisogno che mi paghino le spese di viaggio perché nell’arco di un mese incidono parecchio. Posso pretenderle?

COSA DICE LA LEGGE: Purtroppo la risposta alla sua domanda è tendenzialmente negativa. Nel senso che in ambito lavoristico esiste una netta differenza tra trasferta e trasferimento.

La trasferta consiste nello svolgimento di attività lavorativa per un periodo limitato in un luogo diverso dalla sede di lavoro contrattualmente prevista. La circostanza attribuisce al lavoratore il diritto di ottenere dal proprio datore la corresponsione di una cosiddetta indennità di trasferta.

Il trasferimento, invece, determina lo spostamento definitivo della propria sede di lavoro, il quale non da alcun diritto al lavoratore di ricevere de plano un indennizzo in busta paga che gli consenta di sopperire alle maggiori uscite derivanti, ad esempio, dagli spostamenti con i mezzi per raggiungere il nuovo luogo indicato dall’azienda.

Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 14380/2020 dello scorso 8 luglio 2020: La trasferta si distingue dal trasferimento perché “è indefettibilmente caratterizzata dalla temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale, con la conseguenza che non spetta l’indennità di trasferta a chi esplica in maniera fissa e continuativa la propria attività presso una determinata località, anche se la sede di servizio risulti formalmente fissata in luogo diverso, dove, peraltro, il lavoratore non ha alcuna necessità di recarsi per l’espletamento delle mansioni affidategli”.

A questo punto, occorrerebbe anche esaminare se ed in quale misura il suo datore di lavoro abbia il diritto di imporle un trasferimento, ma questo tipo di analisi necessita di valutazioni in ordine alla struttura societaria, al numero di dipendenti, all’anzianità di servizio, alle esigenze familiari di ciascuno dei suoi colleghi eventualmente interessati dalle disposizioni aziendali. E’ necessario, tuttavia, rivolgersi ad un legale.

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Il diritto alla privacy vale anche per le e-mail aziendali

DOMANDA: Ho il sospetto concreto che il mio datore di lavoro controlli la casella di posta elettronica aziendale che utilizzo per il mio lavoro. Ho infatti visto in qualche occasione che alcuni messaggi risultavano già letti anche se non li avevo ancora aperti. Siccome a volte mi capita di ricevere e-mail per mie questioni private, volevo capire se il titolare ha il diritto di fare questo tipo di controllo.

COSA DICE LA LEGGE: Al suo datore di lavoro è fatto espresso divieto di violare la segretezza della sua corrispondenza. Anche di quella tramite e-mail a mezzo posta elettronica aziendale. Il potere di sorveglianza dell’azienda, infatti, non può spingersi oltre il limite rappresentato dal diritto alla privacy del singolo individuo.

E’ quanto sancito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) con una sentenza del 5 settembre 2017 (Barbulescu contro Romania), la quale ha però evidenziato, altresì, come la violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di diritto al rispetto della vita privata e familiare si sia verificata in forza di una precisa circostanza. Ovvero il fatto che il datore di lavoro non aveva preventivamente comunicato al proprio dipendente che avrebbe effettuato degli accessi alla casella di posta elettronica aziendale di quest’ultimo, al fine di esercitare il proprio potere di controllo.

Se lo avesse fatto, non gli sarebbe stata contestata la liceità del comportamento in parola.

La Corte, tuttavia, chiarisce anche che queste forme di controllo non possono comunque superare i principi di finalità, trasparenza, legittimità, proporzionalità, precisione, sicurezza e personale consapevolezza, e devono, conseguentemente, limitati nella misura dello stretto necessario. Poiché, diversamente ragionando, il rischio sarebbe quello di trasfigurare il comportamento suddetto in un vero e proprio divieto di esercizio della vita sociale sul luogo di lavoro.

Il principio cardine di cui è informata la fattispecie in esame, pertanto, è quello dell’equo bilanciamento tra la privacy del lavoratore e gli interessi aziendali.

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Nel lavoro nero la responsabilità dei soci di società di persone è personale

DOMANDA: Gestisco un ristorante assieme a mio fratello. Siamo una società in nome collettivo. Tre mesi fa l’Ispettorato del Lavoro ha mandato i Carabinieri a fare un controllo e hanno trovato due lavoratori in nero.

Ieri mi è stato notificato il verbale di accertamento, e viene richiesto il pagamento della multa di novemila euro sia a me che a mio fratello. E’ normale?

COSA DICE LA LEGGE: Dipende. Occorre verificare se nel caso di specie entrambi i soci della società di persone hanno partecipato al processo di cooptazione, ovvero all’incarico lavorativo conferito ai lavoratori “in nero”.

La violazione contestata è quella dell’art. 3, comma 3, del Decreto Legge n. 12/2002 convertito in Legge 73/2002, sostitutivo dell’art. 22, comma 1, del Decreto Legislativo n. 151/2015, per aver la società impiegato lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro.

Ora, i soci di una società di persone non possono essere assoggettati a sanzione per il solo fatto di ricoprire tale qualità, dovendo la pena pecuniaria essere irrogata unicamente a carico della persona fisica – o delle persone fisiche, se più d’una – autrice del fatto, con l’eventuale responsabilità solidale della società (art. 6, Legge n. 689/1981).

Se, quindi, solo uno dei due soci della società che gestisce il ristorante si è occupato della materiale assunzione e gestione dei lavoratori “in nero”, solo a quest’ultimo dovrà essere comminata la sanzione in parola.

L’onere della prova dovrebbe, peraltro, incombere sull’Ente accertatore.

Il consiglio è quello di rivolgersi immediatamente ad un legale, affinché valuti le circostanze predisponga, se del caso, fin da subito una memoria difensiva da inviare all’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente.

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La forma del patto di non concorrenza

DOMANDA: Devo accordarmi con un nuovo agente della mia azienda con un patto di non concorrenza. Nei miei contratti standard io inserisco sempre una clausola che impedisce, per un anno successivo alla conclusione del contratto, di lavorare nel medesimo settore e nella stessa area geografica nella quale l’agente lavorava in precedenza per me. E’ sufficiente?

COSA DICE LA LEGGE: Il patto di non concorrenza, regolato dall’art. 1751 bis del Codice Civile, è una delle clausola che maggiormente limitano la liberta contrattuale del contraente debole, ovvero del dipendente.

Proprio per questa ragione, affinché sia valido, deve contemplare una serie di caratteristiche irrinunciabili.

Anzitutto deve essere redatto per iscritto, e se è inserito all’interno del più ampio contratto di lavoro, deve essere anche approvato specificatamente, mediante la cosiddetta doppia firma prevista dall’art. 1341 del Codice Civile. In buona sostanza, è necessario dare la prova che il dipendente fosse pienamente a conoscenza della limitazione che il patto di non concorrenza determina in capo al lavoratore successivamente alla conclusione del rapporto di lavoro.

Se, però, il patto di non concorrenza viene sottoscritto a latere. Ovvero non viene inserito nel contratto di lavoro, bensì in un foglio a parte, che dovrà riguardare solo e soltanto il patto di non concorrenza e null’altro – ad esempio perché questo tipo di accordo è stato convenuto in epoca successiva alla sottoscrizione del contratto di lavoro – non sarà necessaria l’approvazione specifica con doppia firma. Lo ha sancito, tra l’altro, la Sezione Lavoro del Tribunale Civile di Milano con sentenza 25/06/2003.

Il patto di non concorrenza, inoltre, deve contemplare precise caratteristiche di durata, estensione territoriale e di settore di attività, e anche economiche. In particolare, dovrà riferirsi alla medesima zona, prodotti e/o servizi cui si riferivano le mansioni del contratto di lavoro. Non potrà avere durata superiore a due anni, e dovrà essere retribuito, peraltro con una retribuzione non simbolica ma commisurata al tipo di rinunzia professionale che l’applicazione del patto di non concorrenza comporta.

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Coronavirus e indennizzo per artisti

DOMANDA: Sono un musicista, e a causa dello stop forzato dovuto alle misure di contenimento da Coronavirus mi trovo a non avere più le entrate che avevo prima. E che assieme a qualche lavoro saltuario di barista mi consentivano di arrivare a fine mese. Volevo sapere se con il decreto “Cura Italia” appena uscito ho diritto a qualcosa.

COSA DICE LA LEGGE: Lei ha diritto ad un’indennità, per il mese di marzo, pari ad € 600,00, a condizione che rientri nei parametri indicati dall’art. 38 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, cosiddetto “Decreto Cura Italia”.

In particolare, è necessario che lei sia già regolarmente iscritto al Fondo pensioni Lavoratori (Inps ex Enpals), e che nel corso dell’anno 2019 abbia versato almeno 30 contributi giornalieri, i quali abbiano determinato un reddito non superiore ad € 50.000,00.

In buona sostanza, è necessario che lei, nel corso dell’ultimo anno, abbia emesso almeno trenta fatture a fronte di altrettante esibizioni artistiche. O personalmente, tramite la sua partita Iva, oppure mediante iscrizione ad una delle numerose cooperative che si occupano di regolarizzare gli artisti.

E’, inoltre, necessario che lei non goda già di un qualche trattamento pensionistico, ma non mi sembra il suo caso. Per usufruire dell’indennizzo occorre, altresì, che lei non sia titolare di rapporti di lavoro dipendente alla data di entrata in vigore del Decreto “CuraItalia”.

Il reticolato normativo in esame prevede anche un tetto massimo complessivo di spesa per lo Stato Italiano, pari a 40,5 milioni di euro, e va detto, quindi, che allorquando verrà esaminato il cumulo complessivo delle domande pervenute, l’importo dell’indennizzo potrebbe, almeno potenzialmente, patire alcune variazioni al ribasso. Va segnalato, da ultimo, che la somma di € 600,00 è da considerarsi a tutti gli effetti una tantum per il solo mese di marzo. Un indennizzo – e non una forma di Cassa Integrazione (Cig) – che comunque non concorrerà alla formazione del reddito annuale del soggetto beneficiario.

In buona sostanza, coloro che si sono esibiti in regola nel corso del 2019 per un numero di performance sufficiente a far ritenere che da questa attività ne derivino proventi necessari per il proprio sostentamento, potranno godere di questo beneficio. Non si può, quindi, in linea generale, che consigliare a tutti gli artisti, quantomeno per il futuro, di procedere alla propria regolarizzazione fiscale e contributiva (maggiori informazioni possono essere reperite al sito di Esibirsi Soc. Coop. all’indirizzo www.esibirsi.it).

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Lettera di contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro. Cosa fare?

DOMANDA: Ho ricevuto una lettera di contestazione dal mio datore di lavoro che mi chiede giustificazione per un litigio che ho avuto con un collega, svoltosi durante l’orario di lavoro. Ci sono state parolacce ed offese e ci siamo messi le mani addosso. Cosa devo fare adesso, e cosa rischio?

COSA DICE LA LEGGE: Entro 5 giorni dal ricevimento della lettera di contestazione lei deve fornire per iscritto le sue giustificazioni. Meglio se nei 5 giorni suddetti riuscisse a far pervenire al datore di lavoro le sue giustificazioni, anche se l’ultima giurisprudenza consente che la sola spedizione avvenga nel medesimo termine.

A seguito delle sue giustificazioni, il datore di lavoro deciderà se comminarle un provvedimento disciplinare, quale ad esempio, la multa, la sospensione non retribuita dal lavoro fino ad un massimo di tre giorni, e anche il licenziamento, qualora il fatto sia stato grave e/o vi siano comportamenti recidivi.

Non vanno, in ogni caso, trascurate le ripercussioni di un provvedimento disciplinare, in quanto l’accumulo di sanzioni, che peraltro seguono il principio della progressività, può condurre al licenziamento disciplinare.

Contro la decisione del datore di lavoro, se da lei non condivisa, potrà proporre impugnazione innanzi ad un Collegio Arbitrale – solitamente presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente – nel temine di 20 giorni dal ricevimento della comunicazione con cui la informano della sanzione.

Durante il procedimento così radicato, la sanzione è sospesa e non può essere irrogata.

E’ possibile, alternativamente, ricorrere direttamente al Giudice del Lavoro. In quest’ultimo caso il termine di impugnazione è di 10 anni.

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Impugnazione del licenziamento di lavoratore dipendente

DOMANDA: Quali sono i termini ed i modi per impugnare il licenziamento di un lavoratore subordinato?

COSA DICE LA LEGGE: Innanzitutto, il datore di lavoro deve intimare il licenziamento in forma scritta, a pena di inefficacia (art. 2, Legge n. 604/1966). (altro…)

Recupero stipendi non pagati dopo il fallimento del titolare

DOMANDA: L’azienda per cui lavoro è fallita, ma non mi ha ancora corrisposto lo stipendio relativo ad alcune buste paga. Cosa devo fare?

COSA DICE LA LEGGE: Bisogna innanzitutto formulare una apposita istanza, ovvero una richiesta formale di ammissione al passivo, da indirizzare al Curatore fallimentare nominato dal Tribunale. (altro…)

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