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Categoria: Diritto di famiglia

Articoli di diritto di famiglia


Assegno di mantenimento dei figli a carico dei nonni

DOMANDA: Sono divorziata da mio marito, che non si è mai interessato di mio figlio disabile e non ha mai pagato nulla per il mantenimento. Ora è emigrato all’estero e non so nemmeno dove si trovi. Io lavoro tutto il giorno e non ho parenti stretti, e la condizione di mio figlio non mi permette di farmi bastare lo stipendio mensile. Posso chiedere un aiuto ai nonni paterni, che però finora hanno sempre rifiutato?

COSA DICE LA LEGGE: Stando alla descrizione da lei effettuata, pare che la risposta sia affermativa, e che si possa agire in giudizio per ottenere una pronuncia che obblighi i nonni paterni a corrisponderle un assegno di mantenimento mensile.

Parrebbero, infatti, sussistere tutta una serie di elementi che confermano la fondatezza della sua pretesa, ovvero: A) Il padre non ha mai corrisposto alcunché a titolo di mantenimento; B) Risulta difficoltoso, se non praticamente impossibile, agire nei confronti del padre, che pare essersi dato alla macchia; C) E’ innegabile che lei si sia adoperata per recuperare un reddito, in quanto lavora tutto il giorno; D) Le condizioni di suo figlio, che reca una disabilità, rendono insufficiente il reddito mensile del nucleo familiare composto da lei e suo figlio; E) Non vi sono altri parenti in grado di contribuire al mantenimento.

Non sussistono, quindi, apparenti motivi ostativi all’applicazione dell’art. 433 del Codice Civile, il quale indica quali siano i soggetti obbligati a prestare gli alimenti a coloro a cui sono legati da vincolo di parentela, secondo un preciso ordine normativamente stabilito.

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Abbandono del tetto coniugale

DOMANDA: Mio marito se n’è andato di casa dall’oggi al domani, senza una vera motivazione, e soprattutto senza che in precedenza ci fossero state avvisaglie. Semplicemente, un giorno non è più tornato a casa. Ci sentiamo, anche perché abbiamo dei figli, ma volevo capire se questo abbandono del tetto coniugale mi da dei diritti. Perché ho sentito delle amiche dirmi che l’abbandono del tetto coniugale non esiste più.

COSA DICE LA LEGGE: Il caso da lei prospettato configura un vero e proprio abbandono del tetto coniugale da parte di suo marito, in quanto non è stato preceduto da una previa condizione di intollerabilità della vita coniugale. Che se, invece, ci fosse stata, si sarebbe trattato di circostanza giustificativa del comportamento assunto da quest’ultimo.

In buona sostanza, come da ultimo riaffermato dalla Corte di Cassazione Civile con l’ordinanza n. 12241/20 depositata il 23 giugno 2020, l’abbandono della casa familiare continua a rappresentare, di per sé, violazione di un preciso obbligo matrimoniale, quello della convivenza. E neppure l’esistenza di una relazione extraconiugale determina il venir meno di codesto dovere. Di conseguenza, l’allontanamento del tetto coniugale è sempre motivo di addebito della separazione.

Gli unici casi in cui il comportamento in questione può, in linea di principio, ritenersi giustificato sono due. In primo luogo la dimostrazione, a carico di colui che ha lasciato l’abitazione, che la scelta è stata dettata da comportamento dell’altro coniuge.

In secondo luogo, come già ribadito, la circostanza che l’abbandono si sia verificato in un momento in cui l’intollerabilità della vita matrimoniale si era già ampiamente manifestata.

Pertanto, in caso di separazione e riconoscimento giudiziale dell’addebito a carico di suo marito, questi sarà anzitutto condannato al pagamento delle spese processuali, nonché, qualora mai ne avesse potenziale diritto, perderà qualunque diritto di credito di natura alimentare nei suoi confronti.

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Pensione di reversibilità tra vecchio e nuovo coniuge

DOMANDA: Sono stata sposata per venticinque anni con il mio ex marito, che poi si è rispostato con un’altra donna. Dopo dieci anni dal nuovo matrimonio è deceduto. Aveva una pensione piuttosto cospicua. La reversibilità spetta alla nuova moglie o a me?

COSA DICE LA LEGGE: La risposta più corretta è che probabilmente spetta ad entrambe, seppur in misura differente.

La quarta sezione, in materia di lavoro, della Corte di Cassazione Civile, con l’ordinanza n. 8263 del 28 aprile 2020, infatti, ha stabilito che il trattamento di reversibilità deve essere ripartito tra i coniugi, se più d’uno, avendo a mente proprio la finalità solidaristica dell’istituto stesso della reversibilità. In questo senso, il criterio principale da seguire nel frazionamento è quello costituito dalla durata dei rispettivi matrimoni. Vi sono poi ulteriori elementi, cosiddetti correttivi, quali la durata della convivenza prematrimoniale, le condizioni economiche e l’entità dell’eventuale assegno divorzile ricevuto dall’ex coniuge.

Un aspetto particolarmente interessante della pronuncia succitata è dettato dal fatto che la Suprema Corte ha considerato, in favore dell’ultimo coniuge, il periodo di convivenza di quest’ultimo con il defunto, prima della celebrazione del matrimonio, e quantunque fosse iniziato allorquando la persona deceduta, seppur separata legalmente, risultava ancora coniugata con la precedente moglie.

In questo senso, quindi, occorre effettuare valutare precise valutazioni sulla scorta non unicamente del dato cronologico della durata dei rispettivi matrimoni, ma anche di circostanze ulteriori quali la convivenza more uxorio.

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Ottenere la restituzione dei soldi dati a ex compagno convivente

DOMANDA: Ho convissuto per alcuni anni con il mio ex compagno. Durante la convivenza gli ho dato molti soldi perché era disoccupato. Ora la nostra storia è finita e io mi ritrovo senza nessun risparmio da parte, avendo utilizzato tutti i soldi per lui. Ho diritto di richiedere indietro queste somme di denaro piuttosto cospicue?

COSA DICE LA LEGGE: In linea di principio non le è precluso agire per la restituzione di queste dazioni di denaro effettuate in costanza di convivenza, ma questo a condizione che si tratti di importi talmente cospicui da eccedere quello che è il normale principio del mutuo soccorso, anche economico, da commisurarsi, peraltro, allo stile di vita tenuto dalla coppia.

Il principio lo si deriva da una costante applicazione da parte della Corte di Cassazione Civile dei principi desunti dall’art. 2034 del Codice Civile in materia di obbligazioni cosiddette naturali. Il primo comma, in particolare, stabilisce che non è ammessa la richiesta in restituzione di quanto sia stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali. Da ciò la Suprema Corte ha desunto l’assunto secondo cui una dazione di denaro al convivente more uxorio – ovvero non civilmente coniugati – configura il normale adempimento di una obbligazione naturale – e quindi non suscettibile di successiva restituzione – a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del soggetto che effettua l’elargizione (Cass. Civ. Sent. n. 3713/2003).

Di converso, un importo evidentemente maggiore rispetto a quello di cui ai principi sopra descritti, determina un vero e proprio arricchimento senza causa in capo al soggetto percettore degli importi, che in quanto tale può essere tenuto alla relativa restituzione (Cass. Civ. Sent. n. 11303/2020).

Occorre, pertanto, fare attenzione all’ammontare dell’importo da lei pagato, commisurandolo al tenore di vita. In questo senso, l’ausilio di un avvocato nell’esame della fattispecie appare indispensabile.

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Disinteresse del genitore nei confronti dei figli e risarcimento danni

DOMANDA: Ho 21 anni e sono uno studente universitario. Vivo solo con mia mamma perché mio padre se ne è andato di casa quanto ero molto piccolo e non ha più fatto ritorno, costruendosi una nuova famiglia, trovandosi una nuova compagna con cui ha avuto anche figli. Si è sempre disinteressato completamente di me, e non ha nemmeno mai aiutato economicamente mia madre a mantenermi. Ritengo di avere subito ripercussioni psicologiche da questo comportamento. Posso fare qualcosa?

COSA DICE LA LEGGE: In linea di principio lei può agire per il risarcimento dei danni patiti a seguito del comportamento tenuto da suo padre.

Occorre anzitutto verificare se il suo diritto si sia prescritto, e in questo senso ci viene in soccorso una recente ordinanza della Corte di Cassazione Civile, la n. 11097/2020 del 10 giugno 2020, la quale ha stabilito che il disinteresse prolungato ed ininterrotto di un genitore per il proprio figlio costituisce vero e proprio illecito endofamiliare avente natura permanente e non istantanea, non essendo costituito da un singolo episodio, ma da un comportamento consolidatosi nel tempo. Quindi la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento derivante da responsabilità da fatto illecito, che è di norma di cinque anni, non può essere applicata nel caso da lei proposto, essendo tuttora perdurante. Il suo diritto, pertanto, è ancora liberamente azionabile in giudizio.

Occorre, poi, dimostrare l’esistenza di un vero e proprio danno da lei patito. Ebbene, da una parte, quello strettamente patrimoniale – il mancato contributo al mantenimento – appare sottoposto alle normali regole di prescrizione, e non pare neppure che lei goda della legittimazione passiva ad agire, che invece sembrerebbe spettare a sua madre, come da lei descritto nella domanda.

Dall’altra parte, quello non patrimoniale, con particolare riferimento alle ripercussioni psicologiche e alla vita di relazione, di cui l’abbandono è stato evidentemente foriero, dovrà essere clinicamente dimostrato, a mezzo di opportuna perizia medico-legale. Qualora dovesse essere acclarata l’esistenza di un pregiudizio, lei potrà agire nei confronti del suo genitore per ottenere un risarcimento economico.

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Infedeltà coniugale e obbligo di mantenimento

DOMANDA: Sono sposato da vent’anni con mia moglie. Negli ultimi anni, però, la normale vita matrimoniale è venuta meno, pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto. Lei ora sembrerebbe aver trovato un altro uomo, con cui ha iniziato una nuova relazione. Può essere l’occasione utile per chiedere la separazione ed evitare di pagare un mantenimento, poiché, a conti fatti, lei mi sta tradendo?

COSA DICE LA LEGGE: Purtroppo, dalla descrizione dei fatti, parrebbe che lei non possa domandare l’addebito della separazione e conseguentemente evitare di dover pagare un assegno di mantenimento a sua moglie, sempre che, ovviamente, sussistano i presupposti economici che lo giustificano.

Infatti, da una parte è sicuramente vero che in tema di separazione giudiziale dei coniugi si presume che l’inosservanza del dovere di fedeltà, per la sua gravità, determini l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, giustificando così, di per sé, l’addebito al coniuge responsabile.

D’altra parte, però, se il coniuge adultero riesce a dimostrare che la relazione extraconiugale non è stata la causa della crisi familiare, essendo questa già irrimediabilmente in atto, sicché la convivenza coniugale era ormai meramente formale, potrà scongiurare la pronuncia di addebito da parte del Tribunale adito (Corte di Appello di Cagliari, Sent. 869/2018).

In buona sostanza, affinché si possa parlare di addebitabilità della separazione, occorre che il tradimento sia causa, e non conseguenza, della crisi familiare, e non sembra questo il caso da lei proposto.

Vale la pena ricordare, da ultimo, che l’addebitabilità della separazione, che si verifica allorquando si riesce a dimostrare che la rottura del rapporto coniugale è stata cagionata da uno solo dei coniugi, determina in capo alla parte ritenuta responsabile la condanna al pagamento delle spese legali di causa, nonché la perdita di diritto all’assegno di mantenimento e dei diritti successori.

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Abbandono della casa coniugale e addebito della separazione

DOMANDA: Sono sposata da alcuni anni dopo un lungo fidanzamento. Purtroppo le cose tra me e mio marito non vanno più bene e i litigi sono all’ordine del giorno. La situazione è insostenibile e vorrei andarmene di casa, ma ho paura a dirglielo perché temo la sua reazione. Se me ne andassi da un giorno all’altro senza preavviso, cosa rischierei?

COSA DICE LA LEGGE: Se effettivamente la serenità familiare è definitivamente perduta e si è in presenza di una situazione di elevato conflitto all’interno delle mura domestiche, eventualmente comprovabile, lei non rischia nulla abbandonando repentinamente e senza preavviso la casa coniugale.

Quello che, infatti, la giurisprudenza ha ormai da tempo recepito è che vi sono situazioni nelle quali la convivenza forzata tra coniugi fino alla pronuncia di separazione da parte del Tribunale può essere non solo sconsigliabile, ma financo dannosa. Sfociando, in alcuni casi, in gravi episodi di violenza, morale e fisica.

Conseguentemente, nel corso degli anni, al fine di evitare spiacevoli e pericolose situazioni, ha trovato sempre maggiore cittadinanza la possibilità per il coniuge di terminare anzitempo la convivenza domestica.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 648 del 15 gennaio 2020, è nuovamente tornata sul punto, stabilendo da una parte che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale. Ma chiarendo anche che l’assunto non vale nell’ipotesi in cui risulti provato che l’allontanamento è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge, o comunque sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto.

Per inciso, l’addebito a cui fa riferimento la Suprema Corte è una pronuncia accessoria che il Tribunale formula allorquando decide in via definitiva e con sentenza una causa di separazione tra coniugi, dichiarando, se richiesto da una delle parti, chi, tra marito e moglie, abbia determinato la crisi coniugale. In tale caso, il soggetto a cui viene addebitata la separazione subisce ripercussioni sul piano economico, non potendo godere di assegno di mantenimento per sé, e dovendo anche farsi carico delle spese legali di causa.

Non pare, questo, tuttavia, il caso da Lei prospettato, anche se, beninteso, appare opportuno un esame specifico da parte di un legale.

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Visite di nonni a nipoti solo se rispondono a interesse dei minori

DOMANDA: Da tanti anni ho interrotto i rapporti con mio figlio, perché ha sposato una donna che disapprovo molto. Hanno un figlio, che vorrei conoscere e con il quale vorrei trascorrere del tempo per poter svolgere il mio ruolo di nonno. Mio figlio, però, me lo impedisce. Posso pretendere che mi sia riconosciuto questo diritto?

COSA DICE LA LEGGE: Purtroppo la legge non prevede un diritto tout court, assoluto ed insopprimibile, ad esercitare attivamente il ruolo di nonno, sancendo la possibilità, inviolabile, di fare visita ai propri nipoti minorenni. Occorre, invece, valutare caso per caso se, ed in quale misura, la frequentazione del minore con l’ascendente di secondo grado – i nonni – sia funzionale ad una crescita serena ed equilibrata del bambino.

In questo senso, la Corte di Cassazione Civile, da ultimo con l’ordinanza n. 9145 del 19 maggio 2020, ha fortemente ristretto il diritto di un nonno di fare visita alle due nipoti minorenni, proprio in quanto l’elevata conflittualità esistente con i genitori di quest’ultime, aveva finito per turbare la serenità familiare.

La giurisprudenza, in questo senso, ha voluto dare particolare importanza alla capacità degli adulti – in questo caso i genitori e i nonni – di cooperare serenamente al fine di garantire ai minori un ambiente familiare, complessivamente inteso, accogliente e proficuo in termini educativi. Qualora, invece, si assista ad un cortocircuito in tal senso, ai nonni si fanno preferire i genitori, a patto, ovviamente, che quest’ultimi siano sufficientemente in grado di svolgere il proprio ruolo.

In buona sostanza, quindi, il superiore interesse alla tutela del minore prevale su qualunque altra circostanza contingente, fino anche a determinare una forte compressione dei diritti degli ascendenti.

Nel suo caso, pertanto, parrebbe opportuno in primis tentare di recuperare il rapporto con suo figlio, se non altro nel comune interesse di offrire a suo nipote un ambiente familiare privo di conflittualità.

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Quando scatta l’obbligo di mantenimento per i figli

DOMANDA: Mio marito se né andato via di casa da quasi un anno e sta temporeggiando continuamente nel deposito del ricorso per la separazione inventando mille scuse. Nel frattempo non mi sta dando quasi nulla per il mantenimento di nostro figlio di otto anni, che è rimasto con me. Solo negli ultimi due mesi mi ha dato qualcosa. Può farlo?

COSA DICE LA LEGGE: Suo marito è obbligato a contribuire al mantenimento di vostro figlio minore – ma vale il medesimo discorso anche qualora fosse stato maggiorenne ma non economicamente autosufficiente – a far data dal giorno in cui è cessata tra di voi la coabitazione. In pratica, da quando se ne è andato via di casa.

Con una recente ordinanza (la n. 8816/2020 depositata il 12 maggio 2020) la Corte di Cassazione Civile ha infatti chiarito espressamente che l’obbligo di mantenimento, previsto dall’art. 148 del Codice Civile, è conseguenza diretta ed immediata del solo fatto di essere genitore, ed assume, pertanto, decorrenza dalla nascita del figlio. Pertanto, nel caso di successiva cessazione della convivenza fra i genitori, l’obbligo di contribuzione al mantenimento da parte del genitore non collocatario – ovvero di quello dei due che non continua a vivere abitualmente con il figlio – decorre non già dal deposito del ricorso per separazione, ma bensì dal giorno dell’effettivo venir meno della convivenza.

Qualora il genitore non collocatario venga meno al suddetto obbligo, si potrà, pertanto, agire in giudizio al fine di vedere tutelati i propri diritti, e sulle modalità pratiche si rimanda al consiglio di un legale che potrà esaminare lo specifico caso.

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Il rimborso delle spese per gli anziani genitori

DOMANDA: Ho 60 anni e una madre vedova di 86. Ha solo la pensione sociale e non riesce ad arrivare alla fine del mese, anche perché spende una fortuna in farmacia. Io cerco di aiutarla per quel che posso. Ho un fratello, che abita distante e non contribuisce in nessun modo. Se un domani mia madre venisse a mancare, posso chiedere il rimborso di queste spese, di cui conservo tutti gli scontrini?

COSA DICE LA LEGGE: Purtroppo lei non può chiedere a suo fratello il rimborso pro quota di quanto fino ad oggi pagato per contribuire alle spese mensili della sua anziana madre. Infatti, anche mettendo da parte, per un attimo, il reticolato normativo che regola i rapporti, anche economici, tra genitori e figli, i pagamenti da lei effettuati fino ad oggi potrebbero in ogni caso configurarsi obbligazione naturale, ai sensi dell’art. 2034 del Codice Civile. Le obbligazioni naturali consistono in quei pagamenti spontanei in esecuzione di doveri morali e sociali che, in quanto tali, non possono essere domandati in restituzione. Senza tacere, altresì, che essendo mancato a monte un accordo con suo fratello in relazione alla tipologia e ammontare di questi costi – e mancando pure il requisito dell’urgenza in quanto pare si tratti grossomodo di spese mensili fisse – anche per questa ragione una rifusione pro quota appare difficile.

Ad ogni modo, il Codice Civile stabilisce, con il combinato disposto di cui agli articoli 433 e 438, che i soggetti in stato di bisogno e che non siano in grado di provvedere integralmente al proprio mantenimento possano chiedere ed ottenere la corresponsione degli alimenti dai propri parenti più prossimi, tra i quali vanno evidentemente annoverati anche i figli.

E a nulla vale la circostanza che suo fratello viva in altro luogo, poiché si tratta di fatto che non incide in alcun modo sull’obbligazione in questione.

Si potrebbe, quindi, certamente valutare l’ipotesi di promuovere un’azione presso il competente giudice tutelare, al fine di ottenere una pronuncia che obblighi tutti i figli a contribuire in misura uguale alle esigenze dell’anziana madre.

In termini strettamente ereditari, infine, va detto che le maggiori cure prestate al genitore da un figlio rispetto ad un altro non incidono nella ripartizione delle quote ereditarie.

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