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Categoria: Diritto civile e commerciale

Articoli di diritto civile e commerciale


A chi spetta provare che il difetto era presente al momento dell’acquisto

DOMANDA: Ho acquistato un’auto nuova da circa 4 mesi, e da circa due settimane il motore mi da dei problemi quando accelero, perché perde potenza. Il meccanico mi ha detto che potrebbe essere un danno costoso. Ho contattato la concessionaria, la quale mi dice che prima di attivare la garanzia devono verificare che io abbia fatto un uso corretto del veicolo. Cosa intendono? Possono sottrarsi alla garanzia?

COSA DICE LA LEGGE: Lei è coperto da garanzia, e la concessionaria dovrà eliminare il difetto da lei riscontrato, a meno che non provi – e dovrà essere quest’ultima a farlo, non lei – che si tratta di un danno ascrivibile unicamente a responsabilità dell’acquirente.

L’argomento è stato trattato approfonditamente dalla Corte di Cassazione Civile, che con la sentenza n. 13148/20, depositata il 30 giugno 2020, ha ribadito alcuni importanti concetti in materia. In particolare, ha chiarito che dal disposto di cui all’art. 129 e seguenti del Codice del Consumo, discende in capo al venditore una responsabilità nei confronti del consumatore per ogni e qualsivoglia difetto di conformità del bene compravenduto, a patto che si tratti di vizio esistente al momento della consegna e manifestatosi entro due anni dalla stessa.

Va, quindi, compreso anzitutto che la garanzia è uno strumento di protezione non certamente finalizzato a tenere indenne l’acquirente, per un periodo di due anni, da qualunque intervento di manutenzione del mezzo, ma semplicemente a offrire una copertura temporale post vendita rispetto al rischio di manifestazione non immediata di vizi esistenti al momento della consegna.

Il consumatore, qualora riscontri la sussistenza dei suddetti vizi, avrà un termine di due mesi dalla scoperta per effettuare la relativa denuncia al venditore. L’art. 132, comma 2, Cod. Cons., poi, accorda una presunzione a favore del consumatore secondo cui si presume che i difetti manifestatisi entro sei mesi dalla consegna fossero già esistenti in quel momento, salvo che il vizio sia del tutto incompatibile con la natura stessa del bene. Si tratta di una vera e propria presunzione, che può essere superata solo da una prova di segno opposto, che però dovrà essere data – e qui sta la vera garanzia – non dal compratore, bensì dal venditore.

Superati i sei mesi dalla consegna – ma non è per sua fortuna il suo caso – l’onere prova della sussistenza del vizio già al momento della consegna passerà al consumatore.

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Il proprietario del lastrico solare può sopraelevare senza autorizzazione condominiale

DOMANDA: Sono il proprietario dell’attico situato al secondo piano di una piccola palazzina condominiale. La mia terrazza è piuttosto estesa, e vorrei edificare una struttura in muratura per farci all’interno una sauna. Gli altri proprietari mi dicono che però ho bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea, che non avrò mai perché con alcuni condomini non sono in buoni rapporti. Posso fare qualcosa?

COSA DICE LA LEGGE: Lei non ha bisogno di alcuna autorizzazione da parte dell’assemblea condominiale per poter sopraelevare sul lastrico solare di sua proprietà. La cosiddetta colonna d’aria soprastante la sua proprietà, infatti, non costituisce un bene comune in comproprietà tra tutti i condomini, ma è, al contrario, suo esclusivo appannaggio. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione Civile, con l’ordinanza n.  12656/2020 del 25 giugno 2020. Con la pronuncia in questione, la Suprema Corte, rifacendosi a precedenti decisioni (ad esempio la n. 22032/2014) ha precisato che sancito il diritto del proprietario del lastrico solare di utilizzare senza limitazione alcuna lo spazio sovrastante mediante sopraelevazione.

In buona sostanza, la colonna d’aria non costituisce oggetto di un diritto autonomo rispetto a quello del lastrico solare, ma ne rappresenta, al contrario, un preciso corollario, costituito dal diritto del proprietario di utilizzare lo spazio sovrastante. Ciò in deroga al principio dell’accessione di cui all’art. 934 del Codice Civile, e non è in alcun modo subordinato alla circostanza che il titolare sia anche proprietario esclusivo del fondo sul quale il condominio è stato edificato.

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Durante la locazione il proprietario non deve conservare copia delle chiavi

DOMANDA: Qualche giorno fa il proprietario dell’appartamento in cui vivo in affitto, mi ha chiesto una copia delle chiavi della serratura di ingresso, che ho fatto cambiare poco tempo fa perché avevo smarrito quelle vecchie e non mi fidavo a lasciare il precedente blocchetto. Io non vorrei farlo, anche perché francamente non è che siamo proprio in buoni rapporti.

COSA DICE LA LEGGE: Lei può legittimamente rifiutare di consegnare una copia delle chiavi al proprietario dell’immobile da lei condotto in locazione in forza di regolare contratto.

Infatti, con la stipulazione del contratto di locazione, il locatario conduttore entra, di fatto, nel pieno possesso e libero godimento del bene immobile oggetto dell’accordo, con tutto quanto ne consegue anche in termini di inviolabilità del domicilio.

In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza, seppur con sentenze ormai piuttosto risalenti (Cass. Pen. 14 febbraio 1978 n. 109), le quali hanno ribadito che il diritto all’inviolabilità del domicilio appannaggio del conduttore prevale su quella del locatore anche qualora quest’ultimo sia in grado di dimostrare la sussistenza di ragioni – ad esempio la manutenzione dell’immobile – che asseritamente lo legittimerebbero all’accesso.

Pertanto, il suo rifiuto appare legittimo e giustificato.

Va da sé che, per le medesime ragioni, al termine del contratto di locazione, lei sarà tenuto a riconsegnare al proprietario le chiavi, tutte comprese e nessuna esclusa, di accesso al bene.

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Il locatore che accetta in anticipo la restituzione chiavi non rinuncia al preavviso

DOMANDA: Fino a qualche tempo fa abitavo in una casa in affitto. Poi ho deciso di comprare casa. Avevo un preavviso di sei mesi per lasciare l’appartamento, ma ho riconsegnato prima dei sei mesi le chiavi al proprietario, perché nel frattempo potevo già trasferirmi nella casa nuova. Il proprietario ha accettato le mie chiavi tre mesi prima della scadenza del preavviso che gli avevo dato. Ora, però, mi è arrivata una lettera in cui mi chiede i tre mesi ulteriori di preavviso. Può farlo?

COSA DICE LA LEGGE: Purtroppo per lei, la riconsegna delle chiavi al proprietario dell’immobile affittato in un momento precedente al termine del preavviso in caso di anticipata disdetta dal contratto di locazione, non costituisce, neppure implicitamente, rinuncia all’intera durata del periodo di preavviso. E ovviamente ai relativi canoni di locazione.

La giurisprudenza, in questo senso è pacifica, Il Tribunale Civile di Roma, ad esempio, con sentenza del 07 febbraio 2019 ha evidenziato che in tema di recesso, la sola circostanza che il locatore ed il conduttore, prima della fine della locazione, si siano accordati in merito alle modalità di riconsegna dell’immobile, non costituisce prova della risoluzione consensuale del contratto, e tantomeno della rinuncia del locatore all’indennità di mancato preavviso. Pertanto, la mera accettazione in restituzione delle chiavi dell’immobile locato non significa di per sé che il locatore abbia rinunciato al pagamento del corrispettivo per l’intera durata del periodo di preavviso al quale avrebbe avuto diritto per legge.

Pertanto, per le ragioni suesposte, è assai probabile che lei sia comunque tenuto a corrispondere le mensilità relative anche la periodo nel quale non ha goduto dell’immobile locatole – avendo nel frattempo restituito le chiavi – e ciò fino alla scadenza contrattuale del periodo di preavviso.

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Quando ringhiere e balconi rientrato tra le parti comuni del condominio

DOMANDA: Mi è arrivata una comunicazione dell’amministratore condominiale in cui viene convocata un’assemblea per deliberare la spesa condominiale di riverniciatura di balconi e ringhiere delle terrazze. Finora ad oggi mi ero sempre messo io a farmi il lavoro, e smontavo gli infissi per ridipingerli. Vorrei quindi rifiutarmi di partecipare a questa spesa che mi sembra inutile. Inoltre ritengo che non si possa certo obbligarmi a dipingere parti di casa che sono solo mie. Ho ragione?

COSA DICE LA LEGGE: Per rispondere alla sua domanda occorre esaminare le caratteristiche proprie dei balconi e ringhiere presenti nel condominio, complessivamente inteso, presso il quale si trova la sua abitazione. Qualora, infatti, si sia è in presenza di elementi che oltre al loro compito funzionale normalmente inteso, rivestano, in via prevalente ed essenziale anche la caratteristica di veri e propri elementi decorativi dell’edificio, ebbene si dovrà ritenere che gli stessi possano essere a pieno titolo considerati alla stregua di vere e proprie parti comuni. Di conseguenza Lei sarà tenuta a partecipare alla spesa.

Nell’ipotesi in cui l’apporto estetico di questi elementi fosse carente, irrilevante o per giunta assente, lei potrebbe opporre il suo rifiuto già in sede di delibera assembleare.

I concetti suespressi sono stati recentemente fatti propri dalla Corte di Cassazione Civile con l’ordinanza n. 10848/20 dell’08/06/2020, la quale, ripercorrendo un solco giurisprudenziale già trattato si è conformata al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, di cui all’art. 1117 del Codice Civile, non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, né destinati all’uso o al servizio di esso. I rivestimenti dei balconi invece devono essere considerati beni comuni se svolgono in concreto una prevalente ed essenziale funzione estetica per l’edificio quali elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata che contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.

In caso di contenzioso quel che conta sarà, quindi, la valutazione di merito, riservata al giudice, in ordine alla rilevanza estetica, o meno, di balconi e ringhiere rispetto alla complessiva armonia e decoro del condominio.

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I quorum per l’approvazione delle tabelle millesimali

DOMANDA: Ho deciso di farmi carico dell’amministrazione di un piccolo condominio all’interno del quale ho la mia abitazione. Ci sono delle parti comuni che richiedono una manutenzione ordinaria e per ripartire le spese dovrei predisporre e far approvare delle tabelle millesimali. Ho il problema che un appartamento è pignorato e il proprietario abita in un altro luogo, e non ritira la posta. Come posso fare per ottenere una delibera assembleare di approvazione valida, considerato che sicuramente non si presenterà?

COSA DICE LA LEGGE: Lei deve anzitutto premurarsi di effettuare una regolare convocazione dei condomini, tutti compresi e nessuno escluso. Anche, quindi, del proprietario a cui fa riferimento. In questo senso, la prova di avvenuto invio della lettera raccomandata A.R. al luogo di residenza risultante dai pubblici registri e l’avviso di compiuta giacenza del plico presso l’ufficio postale appaiono elementi sufficienti per far ritenere, tramite cosiddetta fictio juris (finzione giuridica), che l’atto sia entrato nella sfera di conoscenza del destinatario. Naturalmente dovranno anche essere rispettati i giorni liberi minimi (cinque) previsti dalla legge tra il giorno della comunicazione dell’indizione di assemblea e quello di effettivo svolgimento della stessa.

Occorre prestare particolare attenzione agli incombenti relativi alla convocazione assembleare, poiché la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso, in quanto vero e proprio vizio procedimentale, comporta l’annullabilità della delibera condominiale.

Lo ha ribadito recentemente la Corte di Cassazione civile, con la sentenza n. 6735/2020, la quale prende posizione anche sulla seconda domanda da lei formulata, quella relativa alle maggioranze necessarie per l’approvazione delle tabelle millesimali. Ha chiarito la Suprema Corte che per l’atto di approvazione delle tabelle millesimali e per quello di revisione delle stesse, è sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136, comma II, del Codice Civile, ogni qual volta l’approvazione o la revisione avvengano con funzione meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge. Viceversa, la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella diversa convenzione, di cui all’ art. 1123, comma I, Cod. Civ., rivelando la sua natura contrattuale, necessita dell’approvazione unanime dei condomini.

Il consiglio, quindi, è quello di richiedere ad un tecnico di predisporre tabelle millesimali formulate secondo le previsioni di legge. A quel punto sarà sufficiente una delibera a maggioranza, e non all’unanimità, bypassando così il problema relativo all’assenza del proprietario che non ritira la posta.

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Rimozione del proprio nome dai motori di ricerca

DOMANDA: Alcuni anni fa sono stato coinvolto in una vicenda di presunta estorsione. Al termine del processo sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Tuttavia, ancora oggi, se si digita il mio nome su google, il primo risultato è un articolo che parla di me come presunto responsabile del reato. La cosa mi arreca un grave danno. Ho diritto a far cancellare questi articoli?

COSA DICE LA LEGGE: Lei ha diritto a chiedere che questi articoli vengano deindicizzati dai motori di ricerca. Ovvero che gli articoli potenzialmente lesivi della sua immagine non compaiono tra i risultati di eventuali ricerche effettuate dagli internauti digitando il suo nome.

Questo, però, a condizione che sia stata superata l’attualità e la contingenza della notizia che la riguarda. Infatti, nel contemperamento tra il suo diritto alla privacy e l’interesse alla diffusione di una determinata news da parte, ad esempio, di una testata giornalistica, è necessario che quest’ultimo non sia preminente, o comunque rilevante. Parrebbe, tuttavia, che nel suo caso possa considerarsi sicuramente tutelabile il suo interesse alla limitazione della diffusione di una notizia che non è evidentemente più attuale, non foss’altro per il fatto che è stata comunque superata da un’altra all’evidenza più recente, e peraltro di segno diametralmente opposto. Quella, cioè, della sua assoluzione.

Certamente più difficile è, invece, ottenere la totale rimozione dell’articolo dal sito web dove è pubblicato, poiché tra gli interessi che l’ordinamento intende tutelare vi è anche quello alla conservazione degli archivi storici. Conseguentemente, non essendo la notizia di cui lei parla attinente esclusivamente alla sfera privata, ma investendo in ogni caso un interesse anche pubblico, non sembra utilmente percorribile la strada della cancellazione tout court delle pagine internet in discussione.

L’intera questione è stata recentemente presa in considerazione dall’ordinanza 19 maggio 2020, n. 9147, della Sezione I Civile della Corte di Cassazione, che ha approfonditamente esaminato il cosiddetto diritto all’oblio e la sua evoluzione storica e giurisprudenziale.

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Ritardo cronico nel pagamento di affitti e inadempimento contrattuale

DOMANDA: Ho affittato da alcuni anni un mio appartamento ad una famiglia che mi paga sempre l’affitto con cronico ritardo. Lo stesso dicasi delle spese condominiali. E’ vero che non accumulano mai più di una mensilità, ma sono stanco di dover sopportare i loro comodi, anche perché non tengono bene l’abitazione. Il contratto dice che anche il ritardo nel pagamento di una sola mensilità determina risoluzione del contratto. Posso agire in giudizio?

COSA DICE LA LEGGE: Stando alla sua descrizione, non sembrerebbe che, allo stato attuale, una azione giudiziale di risoluzione contrattuale per inadempimento del conduttore – per mancato pagamento dei canoni nei termini convenuti – abbia ragionevoli probabilità di accoglimento.

Infatti, l’art. 1455 del Codice Civile stabilisce espressamente che il contratto non può essere risolto se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. E nel caso di specie, nonostante il contratto di locazione stabilisca un termine preciso per il pagamento del canone mensile, la circostanza che lei, in qualità di locatore, abbia fino ad oggi tollerato i pagamenti in ritardo, costituisce evidente sintomo di uno scarso interesse, da parte sua, in ordine al rispetto puntuale delle scadenze di corresponsione delle pigioni.

Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione Civile (Sent. n. 2507/1979), rappresentando che l’abituale tolleranza del locatore nel ricevere con ritardo il canone, rende inoperante la clausola risolutiva espressa: essa non esclude peraltro la pretesa di ottenere il ripristino della rigorosa osservanza degli obblighi contrattuali, ma tale pretesa può spiegare effetti solo per l’avvenire e non può essere addotta per trarre conseguenze giuridiche sfavorevoli al conduttore per le prestazioni già scadute.

In buona sostanza, per la Suprema Corte, occorre anzitutto comunicare al conduttore che non si intendono più tollerare ritardi nel pagamento dei canoni, al fine di far cessare l’implicita accondiscendenza all’inadempimento.

Solo qualora il comportamento perduri anche successivamente alla diffida in tal senso, si potrà valutare, sempre con l’aiuto di un legale, la migliore azione giudiziale da intraprendere.

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Il contratto concluso da un solo comproprietario obbliga anche gli altri

DOMANDA: Alcune settimane ho formulato per iscritto una proposta di locazione commerciale ai tre comproprietari di un negozio che mi interessa. Mi ha risposto uno di loro firmando per accettazione la mia proposta. Ieri mi ha contattato un altro dei comproprietari dicendomi che non me lo affittano più perché hanno trovato da vendere l’immobile. Possono farlo?

COSA DICE LA LEGGE: Dalla descrizione dei fatti, parrebbe che lei abbia diritto ad agire nei confronti dei comproprietari dell’immobile al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo di concludere il contratto di locazione.

Con una sentenza emessa a Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione nel 2012 (la n. 11136/2012), infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, in casi analoghi a quello proposto, vige la presunzione per cui il singolo comproprietario agisca sempre al fine di favorire l’arricchimento del patrimonio di tutti gli altri comproprietari, e quindi anche nel loro specifico interesse.

D’altra parte, l’altro contraente – in questo caso lei – non può certamente essere tenuto a conoscere le dinamiche interne ed i rapporti intercorrenti tra i singoli comproprietari, e conseguentemente la manifestazione di assenso alla conclusione del contratto da parte di uno solo dei locatori sarà sufficiente, non necessitando plurime sottoscrizioni.

La prima conseguenza è che eventuali divergenze circa l’amministrazione del bene in comproprietà potranno, semmai, trovare soluzione unicamente nel rapporto interno tra i singoli comproprietari, ma la circostanza non potrà certamente investire i diritti del conduttore.

Ma v’è di più. Proprio in quanto non firmatari del contratto di locazione, gli altri comproprietari non potranno neppure far valere nei confronti del conduttore eventuali diritti contrattuali, rimanendo quest’ultima facoltà appannaggio esclusivo del solo locatore firmatario.

Pertanto, si potrà, come anticipato, agire per ottenere l’adempimento del contratto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2932 del Codice Civile, e in questo senso si consiglia di rivolgersi ad un legale per approntare la migliore e più efficace azione giudiziale.

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Marito intesta immobile a moglie e ma poi si separano

DOMANDA: Mi sono recentemente separato da mia moglie. Eravamo in separazione dei beni. Alcuni anni fa con dei soldi ricevuti dai miei genitori ho acquistato un appartamento al mare che però ho intestato a mia moglie per questioni di reddito. Avevamo l’accordo verbale che me lo avrebbe restituito se le cose fossero andate male tra noi e glielo avessi chiesto indietro. Ma ora mi contesta la cosa e sostiene di averlo ricevuto in donazione da me. Cosa posso fare?

COSA DICE LA LEGGE: Lei può ottenere in giudizio il riconoscimento delle sue pretese, se riuscirà a provare l’esistenza tra di voi di un cosiddetto patto fiduciario, il quale prevedeva che sua moglie, a semplice sua richiesta, fosse tenuta a restituirle il bene immobile intestatole.

Se è vero, infatti, che i contratti aventi ad oggetto beni immobili devono avere la forma scritta ad sustantiam, ovvero a pena di nullità come stabilito dall’art. 1350 del Codice Civile – si pensi al contratto preliminare di compravendita, oppure al rogito notarile –, recentemente la Corte di Cassazione Civile, con una pronuncia peraltro a Sezioni Unite (la n. 6459/2020), ha fissato alcuni interessanti principi in materia di patto fiduciario. Ovvero di quell’accordo che si basa, giustappunto, sulla reciproca fiducia.

In particolare, la Corte ha chiarito che l’accordo concluso verbalmente tra le parti in forza del quale insorga da parte del fiduciario – in questo caso sua moglie – l’obbligo di procedere al successivo trasferimento al fiduciante – ovvero lei – è meritevole di tutela giuridica anche quando il diritto acquistato dal fiduciario per conto del fiduciante abbia natura immobiliare, ovvero l’appartamento di cui al suo quesito.

D’altra parte, proprio il legame affettivo e familiare tra le parti giustifica l’assenza di un documento scritto, essendo il patto fondato proprio sulla lealtà e fiducia reciproca. La giurisprudenza, peraltro, va anche oltre sostenendo che il patto in questione potrebbe anche non essere contestuale al rogito di acquisto dell’immobile, ma successivo.

Non si nega, tuttavia, che l’onere della prova rimane in capo al fiduciante, e proprio la mancanza di una forma scritta potrebbe costituire, all’atto pratico, un problema non indifferente. Proprio per questa ragione si ritiene che sia comunque necessario avvalersi in prima battuta del parere di un legale.

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